CGUE: no a esclusione da corso di formazione per congedo maternità
L’esclusione automatica di una lavoratrice da un corso di formazione a causa della fruizione di un congedo di maternità obbligatorio costituisce un trattamento contrario al diritto UE, perché discriminatorio: la lavoratrice, infatti, non può beneficiare, al pari dei suoi colleghi, di un miglioramento delle condizioni di lavoro. E’ quanto si legge nella sentenza odierna della Corte di Giustizia dell’Unione Europea che interviene nella causa tra il Ministero della giustizia e una lavoratrice italiana.
La donna in questione ha superato nel 2009 un concorso per la nomina a vice commissario della polizia penitenziaria ed è stata ammessa a partecipare al corso di formazione. Essendo in attesa, in conformità alla normativa nazionale, è stata posta in congedo obbligatorio di maternità per un periodo di 3 mesi. L’Amministrazione penitenziaria ha informato la lavoratrice del fatto che, decorsi i primi 30 giorni del periodo di congedo di maternità, sarebbe stata dimessa dal corso, con perdita della retribuzione.
Il Tar del Lazio, cui la signora ha fatto ricorso, ha chiesto alla CGUE se la direttiva sulla parità di trattamento fra uomini e donne osti a una normativa nazionale che prevede l’esclusione di una donna, per aver preso un congedo obbligatorio di maternità, da un corso di formazione professionale inerente al suo impiego e che la stessa deve obbligatoriamente seguire per poter ottenere la nomina definitiva in ruolo e beneficiare quindi di condizioni d’impiego migliori, pur garantendole il diritto di partecipare al corso di formazione successivo, il cui periodo di svolgimento è tuttavia incerto.
Nella sua sentenza odierna, la Corte ricorda che, secondo il diritto dell’Unione, un trattamento meno favorevole riservato ad una donna per ragioni collegate alla gravidanza o al congedo per maternità costituisce una discriminazione basata sul sesso. Peraltro, alla fine del periodo di congedo per maternità, la donna ha diritto di riprendere il proprio lavoro o un posto equivalente secondo termini e condizioni che non le siano meno favorevoli e di beneficiare di eventuali miglioramenti delle condizioni di lavoro che le sarebbero spettati durante la sua assenza. Quindi l’esclusione dal corso di formazione ha avuto un’incidenza negativa sulle condizioni di lavoro della lavoratrice: infatti, i suoi colleghi hanno avuto la possibilità di seguire tale corso per intero e di accedere, prima di lei, al superiore livello di carriera di vice commissario, percependo al contempo la retribuzione corrispondente.
Si tratta quindi di un trattamento sfavorevole non conforme neanche al principio di proporzionalità, visto che le autorità competenti non sono obbligate a organizzare il corso di formazione a scadenze predeterminate. Per garantire l’uguaglianza sostanziale tra uomini e donne, gli Stati membri dispongono di un certo margine discrezionale: le autorità nazionali potrebbero conciliare l’esigenza della formazione completa dei candidati con i diritti della lavoratrice, predisponendo all’occorrenza, per colei che rientra da un congedo di maternità, corsi paralleli di recupero equivalenti, di modo che possa essere ammessa in tempo utile all’esame e accedere quindi il prima possibile a un livello superiore di carriera. In tal modo l’evoluzione della carriera della lavoratrice non risulterebbe rallentata rispetto a quella di un collega di sesso maschile vincitore dello stesso concorso e ammesso allo stesso corso di formazione iniziale.
La Corte termina sottolineando che le disposizioni della direttiva sono sufficientemente chiare, precise e incondizionate da poter produrre un effetto diretto. Pertanto, il giudice nazionale incaricato di applicarle ha l’obbligo di garantirne la piena efficacia disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione nazionale contraria.