Change your shoes: cosa si nasconde dietro i grandi marchi delle calzature?
Ogni anno si producono miliardi di calzature nel mondo. Dietro le nostre scarpe, specialmente quelle in cuoio, possono però nascondersi violazioni dei diritti umani o danni all’ambiente in svariati punti lungo la filiera. “Change Your Shoes”, a cura della Campagna Abiti Puliti, è un’iniziativa organizzata in collaborazione tra 15 organizzazioni europee e 3 asiatiche. Obiettivo: tutelare i lavoratori della filiera calzaturiera attraverso un salario dignitoso e condizioni di lavoro sicure, offrendo ai consumatori prodotti sani e trasparenti. Il progetto “Change Your Shoes” è stato tra i protagonisti della XIV fiera nazionale del consumo critico e degli stili di vita sostenibili, Fa’ la cosa giusta (10-12 marzo 2017).
«L’industria delle calzature necessita di una massiccia forza lavoro e di una grande quantità di manodopera non specializzata» spiegano i rappresentanti della Campagna Abiti Puliti (www.abitipuliti.org). «Per questo motivo molte marche europee di scarpe delocalizzano la produzione in Paesi dove i salari sono bassi e gli abusi ambientali tollerati. In questi Paesi i lavoratori spesso non possono migliorare le pessime condizioni di lavoro (salari bassi, straordinari illegali, e assenza di misure di sicurezza per la salute) a causa delle restrizioni sulla contrattazione collettiva e sulla libertà di associazione sindacale. Oggi l’87% delle scarpe sono prodotte in Asia, la Cina in testa con una produzione di quasi 2 paia su 3 di scarpe vendute nel mondo. Parlando di scarpe in cuoio, oltre il 40% sono prodotte in Cina, seguita dall’Italia (6%), Messico (6%), Brasile e India (4% ciascuno). Normalmente in questi Paesi vigono regole ambientali meno restrittive, con grande beneficio per il settore di produzione del cuoio, parte vitale della filiera delle scarpe. Nella produzione delle scarpe in cuoio due sono i passaggi pericolosi: la conciatura (trasformazione della pelle animale in cuoio) e l’assemblaggio in fabbrica».
«La filiera globale delle scarpe soffre di noti e diffusi problemi come le basse retribuzioni, le inadeguate condizioni di lavoro e l’uso di sostanze chimiche tossiche e metalli pesanti» riferiscono dalla Campagna Abiti Puliti. «Inoltre la trasparenza su tali condizioni è davvero scarsa. In pratica è quasi impossibile sapere esattamente dove un dato paio di scarpe sia stato prodotto e in quali condizioni per i lavoratori e per l’ambiente. La mancanza di trasparenza rende molto difficile ricondurre le responsabilità a uno specifico produttore o marchio, consentendogli di nascondersi dietro al fatto che il problema non sia in realtà nella loro parte filiera. Ne consegue che le raccapriccianti condizioni di lavoro non siano sufficientemente evidenziate e i lavoratori e l’ambiente continuano a soffrirne. La mancanza di trasparenza è in contraddizione con le “Guidelines for Consumer Protection” emesse della Nazioni Unite, che dichiarano il diritto dei consumatori ad essere informato riguardo ai prodotti acquistati. Le informazioni riguardo alle origini e alla composizione delle scarpe sono essenziali per: permettere al consumatore di scegliere scarpe che siano prodotte con un metodo migliore e più sostenibile nel rispetto dei diritti dei lavoratori e dell’ambiente; permettere al consumatore di proteggere la propria salute scegliendo scarpe che non contengano cromo e altre sostanze chimiche tossiche. Indossare capi in pelle contenenti cromo esavalente può causare irritazioni e dermatiti allergiche dato che questa sostanza è una delle più note sensibilizzanti della pelle. Tipicamente i sintomi delle dermatiti da allergia al cromo sono: secchezza, eritema, fistole, papule, desquamazione, piccole vesciche e gonfiore».
Il 1 maggio 2015 l‘Unione Europea ha bandito la vendita di prodotti in pelle che vanno a contatto con la pelle ed eccedano un valore definito di cromo esavalente. Questo è un passo importante per proteggere i consumatori europei dai prodotti in pelle pericolosi. Ma questa regolamentazione non protegge le persone che lavorano nelle concerie e nelle fabbriche di produzione delle scarpe.
di Marianna Castelluccio
