Un sistema di dovuta diligenza che obblighi le imprese dell’ Ue, che delocalizzano la produzione all’estero, a far sì che le norme internazionali sui diritti umani e sociali vengano rispettate durante tutta la catena di produzione. È quello che chiede la Commissione per lo Sviluppo sostenibile del Parlamento europeo per evitare che tragedie come quella del crollo del Rana Plaza, un edificio commerciale di otto piani, a Dhaka in Bangladesh, non si ripetano.

rana plazaNel maggio del 2013, un palazzo che conteneva cinque fabbriche di abbigliamento, situato in un sub-distretto commerciale della capitale Dhaka, crollò provocando la morte di 1129 persone e il ferimento di 2.515. Almeno metà delle vittime erano donne insieme a molti dei loro figli, dato che all’interno dell’edificio era presente un asilo aziendale. Secondo una ricerca dell’Asian disaster preparedness center, l’edificio era stato costruito senza tener conto delle norme di sicurezza previste. In Bangladesh, come in molti altri Paesi asiatici, manca da parte del Governo la volontà di investire, quando si parla di ricostruzione, nella riduzione del rischio di disastri all’interno delle misure di sviluppo.

Da un rapporto dell’ Alliance for Bangladesh Worker Safety (Associazione per la sicurezza dei lavoratori del Bangladesh), intitolato “Dangerous Delays on Worker Safety,”  è emerso che su 674 fabbriche analizzate il 41% ha problemi strutturali, il 57% ha le uscite d’emergenza danneggiate e il 58% non ha gli allarmi antincendio funzionanti. Prima del Rana Plaza, si erano verificati nei dieci anni precedenti numerosi incidenti, ma la logica degli alti profitti a costi bassi ha sempre vinto sul rispetto dei più elementari diritti umani. Nonostante fossero state notate nei giorni precedenti delle crepe sull’edificio e fossero stati chiusi i piani superiori, i proprietari delle fabbriche all’interno del Rana Plaza ignorarono l’imminente pericolo e ai lavoratori fu detto di tornare il giorno successivo.

Il disastro del Rana Plaza è uno dei peggiori nella storia del settore tessile e della moda. Lo hanno dimostrato critiche sollevate, nei giorni successivi da parte degli altri Paesi, e in particolare le reazioni di molti consumatori che negli Stati Uniti hanno protestato nei confronti di molti rivenditori, denunciando in molti casi le condizioni dei lavoratori. Secondo l’associazione statunitense Worker’s rights consortium, rendere più sicuri gli stabilimenti in Bangladesh costerebbe intorno ai 3 miliardi di dollari, 8 centesimi in più per ogni capo d’abbigliamento. Questo vuol dire che la vita di un operaio vale la rinuncia dello 0,4% sui ricavi totali e chi acquista un capo d’abbigliamento dovrebbe pagarlo 2 centesimi in più. A una settimana dal disastro aziende, rivenditori e ONG si sono riunite per firmare l’Accordo sulla sicurezza delle fabbriche e delle costruzioni in Bangladesh, a cui hanno aderito fino a ora 38 aziende, solo europee. Quelle americane si sono rifiutate proponendo un piano per migliorare la sicurezza delle fabbriche che conteneva però clausole meno rigorose rispetto all’accordo firmato dagli europei.

Nonostante l’accordo, ci sono stati però ben pochi miglioramenti. Ecco perché il 26 aprile su iniziativa della Commissione per lo Sviluppo Sostenibile, gli eurodeputati voteranno un rapporto che contiene proposte per incentivi ed etichette speciali per i tessuti prodotti in modo sostenibile e nel rispetto dei diritti dei lavoratori. 

 

di Ludovica Criscitiello


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