TopNews. Clean Clothes Campaign: grandi marchi indietro nella lotta alla povertà
All’impegno preso a parole non fanno seguito i fatti. E i fatti sono che i grandi marchi non hanno ancora fatto nulla di concreto per arginare la povertà e garantire ai lavoratori che realizzano abbigliamento in Asia, Africa, America Centrale o Europa Orientale salari sufficienti per vivere con dignità. È la bocciatura che arriva dalla Clean Clothes Campaign in un nuovo rapporto sui salari nella filiera della moda. Il marchio non può dimostrare che venga corrisposto ai lavoratori un salario vivibile: questa valutazione, la più bassa, accumuna 19 grandi marchi su 20. Con l’eccezione di Gucci per la parte di produzione che si fa in Italia, unico brand a guadagnare un punteggio più alto perché il 25% o più dei lavoratori della filiera guadagnano un salario considerato vivibile.
I principali marchi dell’abbigliamento, denuncia la Clean Clothes Campaign, non sono riusciti a mantenere l’impegno di un salario vivibile: “nessun grande marchio di abbigliamento intervistato è stato in grado di dimostrare, al di fuori della propria sede centrale, che i lavoratori della sua catena di fornitura siano effettivamente pagati abbastanza per vivere con dignità e sostenere una famiglia”. Le iniziative volontarie non sono riuscite a garantire ai lavoratori un salario vivibile, dice il rapporto. E aggiunge: “I marchi di abbigliamento e i distributori stanno violando le norme sui diritti umaniriconosciute a livello internazionale e i propri codici di condotta”.
Il rapporto “Salari su misura 2019: Lo stato delle retribuzioni nell’industria globale dell’abbigliamento“ analizza le risposte di 20 grandi marchi della moda sui progressi verso un salario vivibile e dice che nessun grande marchio di abbigliamento è in grado di dimostrare che i lavoratori che producono i loro capi in Asia, Africa, America Centrale o Europa Orientale siano pagati abbastanza per sfuggire alla trappola della povertà.
“Dalla ricerca – informa una nota – è emerso che l’85% dei marchi si è impegnato in qualche modo a garantire che i salari siano sufficienti a soddisfare le esigenze di base dei lavoratori, ma, al contempo, che nessuno di loro ha messo in pratica questo principio per nessun lavoratore nei Paesi in cui viene prodotta la stragrande maggioranza dei capi di abbigliamento”. Commenta Anna Bryher, autrice del rapporto: “A cinque anni di distanza dalla nostra precedente indagine, nessun marchio è stato in grado di mostrare alcun progresso verso il pagamento di un salario vivibile. La povertà nell’industria dell’abbigliamento sta peggiorando. È una questione urgente. Il nostro messaggio ai brand è chiaro: i diritti umani non possono aspettare e i lavoratori che realizzano i capi venduti nei nostri negozi devono essere pagati abbastanza per vivere con dignità”.
“Le iniziative volontarie non sono riuscite a garantire i diritti umani dei lavoratori”, ha aggiunto Deborah Lucchetti della Campagna Abiti Puliti, sezione italiana della Clean Clothes Campaign. “Il modello economico globale che spinge i prezzi al continuo ribasso e mette in competizione i Paesi a basso salario è troppo forte. È un dato di fatto che i lavoratori che producono quasi tutti gli abiti che compriamo vivono in povertà, mentre le grandi marche si arricchiscono grazie al loro lavoro. È tempo che i marchi adottino misure efficaci di contrasto al sistema di sfruttamento che hanno creato e da cui traggono profitto”.
I salari di base in Etiopia e Bangladesh sono meno di un quarto del salario dignitoso, mentre in Romania e in alcuni altri paesi dell’Europa orientale il divario è ancora maggiore, con i lavoratori che guadagnano solo un sesto di quanto necessario per vivere con dignità e mantenere una famiglia.
Notizia pubblicata il 05/06/2019 ore 16.56