
Sulle coste italiane ecosistemi presi d'assalto. Il Dossier WWF per la Giornata degli Oceani (Fonte immagine: PIxabay)
Sulle coste italiane ecosistemi presi d’assalto. Il Dossier WWF per la Giornata degli Oceani
Il 51% delle coste italiane è stato trasformato e degradato. Intanto cambiamenti climatici, inquinamento da plastica, specie aliene, ancoraggi indiscriminati e pesca eccessiva stanno deteriorando gli ecosistemi marini
Le coste italiane (circa 7.500 km) sono la porzione di territorio che, negli ultimi 50 anni, ha subito le maggiori trasformazioni. Il 51% dei paesaggi costieri italiani (circa 3.300 km) sono stati trasformati e degradati da case, alberghi, palazzi, porti e industrie.
Appena 1.860 km (il 23%) di tratti lineari di costa più lunghi di 5 km, isole comprese, possono essere considerati con un buon grado di naturalità. Mentre installazioni industriali, espansione urbana e strutture turistiche, deforestazione e rasatura delle dune costiere hanno alterato quasi interamente il profilo del nostro litorale.
È quanto denuncia il WWF con il nuovo “Dossier Coste, il profilo fragile dell’Italia” lanciato oggi, 8 giugno, in occasione della Giornata Mondiale degli Oceani e che inaugura l’avvio della Campagna GenerAzioneMare 2022.
Agli impatti diretti – spiega il WWF – si è aggiunta l’erosione delle spiagge, fenomeno naturale esacerbato delle attività umane. In particolare, la manomissione dei fiumi e la demolizione delle dune costiere hanno ridotto e rimosso l’apporto di materiale per la formazione delle spiagge. Nel periodo 2006-2019, infatti, un totale di 841 chilometri di costa italiana era caratterizzato da erosione.
Intanto cambiamenti climatici, inquinamento da plastica, specie aliene, ancoraggi indiscriminati e pesca eccessiva stanno deteriorando gli ecosistemi marini.
Coste, il problema della pesca ricreativa e illegale
Per quanto riguarda la pesca – spiega il WWF nel Dossier – diverse specie costiere sono spesso sovrasfruttate, per l’azione combinata della pesca professionale e di quella ricreativa. L’impatto di quest’ultima è spesso sottovalutato o interamente ignorato: si stima che in Italia siano oltre mezzo milione i pescatori ricreativi da barca e oltre 230 mila pescatori sia subacquei, sia da spiagge che da moli.
Secondo alcuni studi, nel nord-ovest del Mar Adriatico, ad esempio, le catture ricreative potrebbero ammontare a circa il 30-45% degli sbarchi della piccola pesca locale. Vanno poi sommati gli effetti della pesca illegale, che viene denunciata dalla maggior parte delle Aree marine protette.
Tutela carente
Secondo quanto emerso dallo studio del WWF, il 33% degli habitat marini italiani di interesse comunitario presenta uno stato di conservazione inadeguato e solo il 26% è in uno stato di conservazione favorevole. Il 71% degli habitat dunali in Direttiva sono in cattivo stato di conservazione e in regressione.
Ad oggi esistono 29 aree marine protette (AMP) e 2 parchi sommersi che, insieme ad altre tipologie di aree protette, nel complesso tutelano circa 308mila ettari di mare e circa 700 km di costa.
“Queste aree – denuncia l’associazione ambientalista – sono tuttavia troppo poche e troppo piccole. Al 2019, considerando sia AMP sia siti Natura 2000 a mare, solo il 4,53% delle acque territoriali italiane (0-12 miglia nautiche) era protetto, di cui l’1,67% con un piano di gestione implementato e appena lo 0,01% soggetto a protezione integrale. Le aree marine protette rappresentano un elemento chiave per la pesca sostenibile”.
Coste e inquinamento da plastica, il runoff
Dalla costa deriva, inoltre, una delle principali minacce agli ambienti marini costieri, il runoff, ossia il deflusso di componenti chimici e di particolato. Il runoff è anche parzialmente responsabile dell’inquinamento da plastica: il 4% della plastica che si disperde in mare, infatti, è trasportato dai fiumi – spiega il WWF nel Dossier. Inoltre, parte della restante percentuale di plastica che si accumula sulle coste e in mare (il 78%) è originata dalle attività che si svolgono sulla costa stessa, primo tra tutti il turismo.
Plastica e microplastiche rappresentano, quindi, un rischio per la megafauna – basti pensare che su 560 individui di tartaruga comune del Mediterraneo centrale, l’80% degli animali aveva frammenti e resti di plastica nello stomaco – e per organismi meno “carismatici”. In alcune specie, come le cozze ed altre di interesse commerciale, sono state infatti ritrovate quantità non trascurabili di microplastica.
