Che si tratti di pret à porter o collezioni di prima linea poco importa: il settore della moda soffre pesantemente gli effetti della crisi. A darne riscontro sono le quasi 160.000 imprese che compongono il comparto dell’abbigliamento e delle calzature, protagoniste di uno studio statistico condotto da Fismo (Federazione Nazionale Moda) e Confesercenti sull’andamento del settore. L’indagine campionaria, presentata questa mattina a Roma nel corso di una conferenza stampa, ha messo un evidenza cifre preoccupanti. Partiamo col constatare che la quota di spesa che le famiglie italiane riservano all’abbigliamento e alle calzature è calata di circa 3 punti percentuali dal 2008 ad oggi, passando dall’8% al 5,8%. Dal lato di chi fa impresa, la perdita è stata considerevole: si calcola, infatti, che il reddito di coloro che operano nel settore abbia subito una riduzione complessiva pari al –32% negli ultimi cinque anni. In particolare, il 2011, per il 75% degli intervistati è considerato un anno orribile. Per il 2012 la situazione non si prospetta affatto più rosea dal momento che già nei primi mesi dell’anno, nonostante l’effetto indotto dai saldi, gli esercenti hanno lamentato incassi in caduta libera.
Il presidente di Fismo, Roberto Manzoni, sottolinea che se non si interviene in tempi brevi con una politica di sostegno nei confronti della piccola e media impresa distributiva del Made in Italy, non ci potranno essere margini per un reale miglioramento. “C’è bisogno di una politica economica basata sulla crescita e non solo sui tagli dei consumi e sulla pressione fiscale”, ribadisce ancora Manzoni.
Negli ultimi mesi, la contrazione della domanda di mercato è stata tale da indurre molti esercizi ad abbassare la saracinesca. Dal 2009 al 2011 sono state 40.000 le imprese del comparto che hanno chiuso battenti e il fenomeno è ben lontano dall’arrestarsi. A questo punto verrebbe da chiedersi in che modo cercano di affrontare la crisi tutti quegli imprenditori che provano a mantenere la loro posizione sul mercato. Molti cercano di intervenire sugli approvvigionamenti, tagliando gli acquisti, richiedendo lotti e prezzi inferiori ai fornitori abituali oppure rivolgendosi a fornitori più convenienti (40%); altri (il 22%) scegli la strada della diversificazione dell’offerta, affiancando al prodotto di punta, articoli di fascia più bassa per recuperare clientela e combattere la concorrenza.
Va rilevato, come nota positiva, che l’idea di mantenere un core business di qualità elevata è particolarmente diffusa poiché, per la maggior parte degli esercenti, ciò rappresenta il biglietto da visita più importante agli occhi dei clienti. Inoltre, quasi mai si sceglie la via dei tagli al personale per ridurre i costi di gestione dell’impresa, dal momento che la trasmissione del know how, quindi della formazione, costituirebbe un costo che al momento spesso non è possibile sostenere a causa di priorità più impellenti.
Quelli messi in atto dagli imprenditori sono in realtà interventi che servono solo a tamponare una situazione difficile ma che non si possono considerare risolutivi. Per questo motivo, la Fismo, in qualità di associazione rappresentativa del settore, chiede al Governo Monti di mettere in atto una serie di azioni strutturali che sostengano lo sviluppo e consentano la permanenza sul mercato delle piccole e medie imprese che, come è noto, rappresentano la maggior parte del panorama imprenditoriale italiano.
Gli esercenti, dal canto loro, bocciano le aperture festive, ritenute inutili perché fanno solo lievitare i costi ma non le vendite (90% degli intervistati), mentre ribadiscono che, dopo il necessario periodo iniziale di sacrificio richiesto a tutti, sarebbe necessario allentare progressivamente la pressione fiscale (89%) e rilanciare parallelamente la domanda: occorrono quindi politiche di assistenza e di tutela dello sviluppo e un’iniezione di moderato ottimismo per infondere fiducia nei consumatori, che allarmati dagli scenari catastrofici dipinti da più parti, spingono la domanda di consumi verso il basso.
 
di Elena Leoparco


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