Rifiuti, rifiuti e ancora rifiuti, di plastica soprattutto: 197mila tonnellate tra contenitori, pellicole industriali e residui plastici di ogni tipo che ogni anno lasciano l’Italia e vengono esportati verso altri paesi Ue o extra europei, per essere riciclati perché non possono essere smaltiti dai nostri impianti. Un giro d’affari, di 58,9 milioni di euro. 

A descrivere l’attuale situazione dell’import-export dei rifiuti europei ci ha pensato un’inchiesta di Greenpeace che ha provato a descrivere le rotte seguite dalla plastica che gettiamo nei cassonetti.

Fino allo scorso anno, la maggior parte dei rifiuti in plastica italiani ed europei partivano dai confini nazionali per raggiungere l’estremo oriente, in particolare la Cina che raccoglieva circa il 42% dei rifiuti provenienti dai nostri confini. 

Ad un anno di distanza dal blocco cinese delle importazioni di rifiuti, l’Occidente, Italia compresa, rischia di trovarsi sommersa in un mare di plastica. 

Nel 2018, rispetto al 2016, la Cina ha ridotto dell’83,5% il volume di rifiuti italiani importati, accogliendo di fatto solo 2,8% dei nostri scarti plastici. Ma se la Cina ha detto basta, altri paesi sono ancora disposti ad accogliere la plastica. Malesia e Yemen sono i nuovi indirizzi delle spedizioni. Nello specifico, in Malesia, le importazioni nel 2018 sono aumentate del 195,4% rispetto al 2017, segue Turchia (+191,5% rispetto al 2017), Vietnam (in leggera decrescita rispetto al 2017 ma aumentato del 153% rispetto al 2016), Yemen, Usa e Thailandia (+770%).

Tecnicamente non ci sarebbe niente di strano o di sbagliato nell’esportare i rifiuti altrove dal momento che il Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio del 14 giugno 2006, n.1013 permette l’invio dei rifiuti al di fuori dei paesi Ue, e quindi anche al di fuori dell’Italia, a patto che siano mandati verso siti in cui verranno trattati secondo le norme di smaltimento previste in Europa, in merito al rispetto dell’ambiente e della salute umana.

I dubbi però sulla veridicità delle certificazioni degli impianti esteri sono molti, dal momento che già negli anni passati sono state individuate false certificazioni di impianti cinesi. Senza andare troppo lontano, lungo la via cinese dei rifiuti, appare evidente che, anche quando l’export è indirizzato all’interno di altri paesi europei, si prediligono le spedizioni verso quelli dove in controlli sono più blandi, come i paesi di nuovo ingresso. In Romania, ad esempio, il flusso dei rifiuti è aumento del +385% tra il 2017 e il 2018, mentre resta costante il ruolo della  Slovenia, che lo scorso anno ha importato ben l’8% dei nostri scarti plastici, per un valore di 3,7 milioni di euro.

Come risolvere il problema, allora? Secondo il ricercatore presso la Scuola Agraria del Parco di Monza, Enzo Favorino: “L’unica via per non venire sommersi dalla plastica resta il riuso, la riprogettazione per la riduzione e la durevolezza nonché l’adozione di tutti gli strumenti tecnologici e normativi che possano portare l’Europa a potere definirsi realmente con un modello di economia circolare”.

Con una produzione di plastica che raddoppierà le quantità del 2015 entro il 2025 per quadruplicarle entro il 2050, il nostro Pianeta rischia di essere sommerso da rifiuti in plastica. Sono necessari interventi urgenti, soprattutto per l’usa e getta, che oggi costituisce il 40% della produzione globale di plastica.


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