Rapporto OCSE: per migrazioni internazionali servono soluzioni a lunga scadenza
Nel 2016 sono emigrati nei paesi OCSE, per risiedervi stabilmente, 4 milioni e 800 mila persone, un livello superiore a quello rilevato negli anni precedenti la grande crisi del 2008. Se mai ve ne fosse ancora bisogno, questo aumento sottolinea come le migrazioni costituiscano uno dei segni più caratteristici del mondo globalizzato, secondo le previsioni destinato a perdurare. È quanto emerge con chiarezza dal rapporto OCSE “Prospettive delle migrazioni internazionali nel 2016”, presentato questa mattina.Le cosiddette “crisi migratorie” sono concentrate in paesi vicini all’Europa e, almeno allo stato attuale, difficilmente si risolveranno nel breve periodo. Uno dei primi effetti delle crisi è l’aumento delle richieste di accoglienza in alcuni punti che vengono caricati di questo peso senza possibilità di poter condividere con altri il fardello. Questo fa aumentare la tensione alle frontiere e, come sta accadendo in Europa, alcuni capisaldi della cooperazione e dello scambio vengono messi in discussione. A questo si somma un’opinione pubblica sempre più ostile che non vedono di buon occhio la pressione esercitata sui confini nazionali. Ma a pagare lo scotto maggiore sono soprattutto i sistemi di accoglienza che in molti casi risultano essere al collasso.
Partendo da questo scenario internazionale è importante delineare la situazione di uno dei paesi maggiormente interessato dai flussi in arrivo negli ultimi anni: l’Italia.
A tracciare il quadro della situazione nel nostro Paese ci ha pensato IDOS. L’istituto, che da anni cura il rapporto Caritas sull’immigrazione, ha evidenziato che il deficit demografico è così elevato, per cui la popolazione residente, pur nella continua diminuzione degli italiani, sono gli stranieri ad aumentare per nascite sul posto (72.000) e arrivo dall’estero (250.000). I nuovi arrivi sono avvenuti in prevalenza per motivi familiari e umanitari e meno per motivi di lavoro.
Dall’inizio del secolo i cittadini stranieri sono cresciuti di oltre 3,5 milioni e lo faranno ancora: l’Istat ha previsto, tra il 2011 e il 2065, 18 milioni di ingressi dall’estero per mantenere inalterato il livello della popolazione a fronte del declino degli italiani, stranieri che arriveranno a incidere per un terzo sulla popolazione totale (attualmente l’incidenza è dell’8,3%).
Le ragioni demografiche si intrecciano con quelle lavorative, anche se il dinamismo risulta rallentato. I lavoratori stranieri occupati sono diventati 2.350.000, aumentati di 65.000 unità nel corso di un anno ma non in misura tale da ridimensionare sostanzialmente la massa dei disoccupati stranieri (450.000).
Anche i cittadini non comunitari sono diventati per lo più lungo soggiornanti (62,5), senza essere più costretti a lasciare l’Italia in caso di perdita del posto di lavoro. Ma non si tratta di una massa di assistiti, tenuto conto che è maggiore l’apporto che essi assicurano al sistema fiscale italiano rispetto alle spese pubbliche sostenute a loro favore: il bilancio è di 2,2 miliardi a favore dell’Italia. Peraltro, diventa sempre più difficile una rigida suddivisione tra italiani e stranieri e sarebbe più corretto parlare di residenti di origine straniera. Si stima, infatti, che i cittadini italiani di origine straniera siano già oltre 1 milione e 150mila, dei quali 178.000 diventati tali nel 2015.
Nel 2015, in ambito OCSE, sono stati 1 milione e 650mila i richiedenti asilo. Anche l’Italia è stata fortemente caratterizzata da questi flussi. Tra i 153.000 sbarcati sulle sue coste, spesso salvati dall’intervento delle navi italiane e di quelle comunitarie dell’Agenzia del Frontex, sono stati in 83.540 a presentare domanda d’asilo. Tra i cittadini presenti in Italia in provenienza da Mali, Gambia, Somalia, Nigeria, Costa d’Avorio, Ghana e Burkina Faso, la maggior parte lo è per ragioni di protezione umanitaria.
Come riassumere i temi dell’incontro? Una presenza che non pone solo problemi, ma assicura dei vantaggi, una consistenza in aumento e destinata ancora a crescere, una realtà lavorativa (dipendente e autonoma) in grado di favorire i rapporti con i paesi di origine, una dimensione multiculturale e multireligiosa che di per sé avvalora le ragioni della convivenza.