Giustizia: 20 mila studenti italiani parlano con Gherardo Colombo
«Giustizia dovrebbe essere riconoscimento universale e quindi alleanza. Ma forse trascorreranno dei millenni prima che tale concetto diventi completamente condiviso». Così Gherardo Colombo, ex magistrato italiano – famoso per aver condotto o contribuito a processi e inchieste quali il delitto Ambrosoli, Mani pulite, Loggia P2 – parla ai 20mila studenti delle scuole secondarie di II grado di tutta Italia nel corso dell’evento “Che cos’è la giustizia?”, organizzato dall’Associazione Sulleregole. L’incontro è stato trasmesso il 18 novembre in diretta satellitare dalla Fabbrica del Vapore di Milano in oltre 100 sale cinematografiche. Un momento di riflessione per chiarirsi le idee su alcuni aspetti fondamentali della giustizia, a cominciare dal significato stesso della parola, anche con l’aiuto del duo comico Luca Bizzarri e Paolo Kessisoglu, che hanno aperto il confronto con una gag sulle regole di giustizia per eccellenza, i Dieci Comandamenti.
«Per voi giustizia equivale a rispetto, inteso come idea di non lesione delle possibilità degli altri. E questo è uno dei significati di giustizia. Ma nel corso della storia è sempre stato così?» chiede Gherardo Colombo alla giovane platea visivamente in soggezione. «Pensate allora a quando hanno votato per la prima volta le donne in Italia, nel 1946. Prima di quella data gli uomini avevano maggior potere delle donne e questo era ritenuto giusto». Gli studenti a questo punto si domandano: “Si può infrangere la legge per seguire la giustizia?” «Dipende dalla legge» risponde Colombo. «Non sempre le leggi sono giuste. Fortunatamente nel nostro Paese le leggi ingiuste, cioè incoerenti con la Costituzione, possono essere corrette. Ma laddove non sia possibile farlo, io ho una mia regola. Tutte le volte che una legge infrange consistentemente un diritto fondamentale della persona e non esiste la possibilità di cambiarla tempestivamente, secondo me è praticamente obbligatorio infrangere la legge. A patto naturalmente che ci si assuma la responsabilità della violazione e non si usi violenza, che per definizione contrasta con il riconoscimento della dignità della persona. Nel 1938, quando nel nostro Paese sono entrate in vigore le leggi razziali, credo che gli italiani avrebbero dovuto infrangerle, sarebbe stato loro compito infrangerle. Altrove è successo. Le hanno infrante in Danimarca e in Bulgaria» aggiunge Colombo.
La conoscenza, dunque, è alla base di ogni scelta. E tra la stessa scuola e la giustizia c’è un legame forte. «Se uno non sa, non può scegliere» sottolinea l’ex magistrato. In più «se riusciamo a comprendere il perché delle regole, diventa più semplice rispettarle» spiega Colombo. A questo punto l’attenzione si sposta sul concetto di “punizione”. In sala viene proiettato un passaggio del film Dead Man Walking, in cui il protagonista interpretato da Sean Penn chiede perdono poco prima di ricevere l’iniezione mortale. E la domanda dell’ex magistrato agli studenti è: «La punizione serve davvero a educare? Contrariamente a quanto molti dei miei colleghi pensano, io credo che per essere legittimati a mettere in carcere qualcuno bisognerebbe averlo provato. Bisognerebbe sapere quanta sofferenza comporta. Immaginate di non poter più vedere la vostra famiglia, se non per quelle 6 ore di colloquio al mese, di non poter guardare liberamente la tv, fatta eccezione per quei pochi canali consentiti, di non avere più il cellulare o internet. Immaginate di vivere gran parte della vostra giornata in 3 metri quadrati di cella, quando va bene, privati del vostro spazio vitale. La punizione non educa, anzi, fomenta il conflitto tra la società e chi trasgredisce le regole. A dimostrarlo sono i numeri: il tasso di recidiva di chi è stato in prigione è del 70%, contro il 19% di chi viene invece affidato in prova ai servizi sociali, lì dove è possibile».
E alla domanda: “E’ sempre sbagliato farsi giustizia da soli?”, Gherardo Colombo risponde: «Assolutamente sì. O meglio, è sbagliato chiamare la vendetta giustizia. Ma questo è un equivoco di fronte al quale ci troviamo sempre: la convinzione generale è che la vendetta sia una cosa negativa. Allora farsi giustizia da sé vuol dire vendicarsi, farsi giustizia attraverso lo Stato vuol dire delegare a qualcun altro la vendetta». Nel film Dead Man Walking, lo Stato dà una sorta di ricompensa alle vittime condannando a morte l’assassino. «E questa non è vendetta?» afferma Colombo.
Regole e giustizia si legano poi alla parola responsabilità. Una scena del film The reader, con protagonista Kate Winslet processata per antisemitismo, spiega come l’essere funzionali al rispetto delle regole non serve, se le regole sono finalizzate a compiere il male. In tutto questo la responsabilità personale conta, anche quando pensiamo di essere solo un trascurabile ingranaggio di una grande macchina.
«A cosa dovrebbe ispirarsi un giudice?», chiedono i ragazzi. «Dovrebbe avere dentro la Costituzione italiana, viverci in simbiosi. Pensiamo all’articolo 3 della Costituzione, che dice che tutte le persone, nessuna esclusa, sono importanti e destinate ad avere lo stesso rispetto e la stessa dignità» sostiene Colombo. E allora quali sono oggi le urgenze della nostra giustizia sociale da cui è necessario che la politica riparta? «Ci sono milioni di persone che ogni anno muoiono di fame, mentre noi dobbiamo fare la raccolta differenziata perché produciamo troppi rifiuti. Allora c’è da guardare lì. L’Italia è certamente messa meglio rispetto a tanti Paesi del mondo, però succede che anche da noi ci sono persone, e non sono poche, che vivono sotto la soglia di povertà. Allora qui si tratta di guardare a due aspetti: giustizia distributiva e giustizia sociale. Bisogna puntare alla realizzazione di una distribuzione meno discriminante – oggi è sempre più ampia la forbice tra chi guadagna poco e chi guadagna tanto – e creare maggiore giustizia sociale, che vuol dire garanzia a tutti di un minimo di diritti che consentano di avere una vita dignitosa: dal cibo, all’istruzione, alla sanità. E poi c’è la possibilità di scegliere: tante persone oggi sono formalmente libere di scegliere, ma sostanzialmente devono fare i conti, ogni giorno, con la possibilità di arrivare a fine giornata».
di Marianna Castelluccio