Si scrive “Airbnb”, si legge opportunità di crescita per il Paese. Per coloro che non sono ancora molto coinvolti nel mondo della sharing economy, chiariamo che Airbnb è un portale, aperto in California nel 2008, che offre opportunità di viaggio e soggiorno in più di 34mila città in 190 paesi. Gli iscritti al portale (i cosiddetti “host”) mettono quindi a disposizione la loro casa per ospitare turisti. Secondo lo studio “Fattore Sharing: l’impatto economico di Airbnb in Italia”, la società leader della sharing economy ha contribuito nel 2015 a un beneficio economico complessivo di 3,4 miliardi (0,22% del pil), supportando l’equivalente di 98.400 posti di lavoro. Nel 2015 oltre 80mila host italiani che hanno accolto ospiti nelle loro case, hanno guadagnato in media 2.300 euro all’anno condividendo il proprio alloggio per 24 notti.
Per Adoc sono numeri che dimostrano come la sharing economy possa essere un mezzo per la crescita del Paese, in questo caso del settore turistico, ma rimane viva la discussione sulla possibile evasione fiscale da parte degli host. “Affinché la crescita abbia benefici per tutti i cittadini è necessario valutare la migliore soluzione per eliminare ogni possibile caso di evasione fiscale, che andrebbe a penalizzare l’economia”, dichiara Roberto Tascini, Presidente dell’Adoc.
Allo stato attuale dei fatti, Airbnb lascia agli host la responsabilità di mettersi in regola con il pagamento delle tasse locali, assumendo una posizione neutra in tal senso. In Italia, lo ricordiamo, le entrate derivanti da quest’attività devono essere inserite nella dichiarazione dei redditi, sotto la voce “Redditi Diversi”, cumulandosi con gli altri eventuali redditi percepiti, su cui verrà calcolata la tassazione Irpef.
Ma quanti effettivamente lo fanno?
Nonostante non ci siano dati certi a riguardo, è presumibile pensare che la percentuale di “furbetti” sia più alta di quanto si potrebbe sperare. Il disegno di legge sulla sharing economy prevede che ai redditi fino a 10mila euro si applichi un’imposta pari al 10% mentre i redditi superiori a 10mila euro devono essere cumulati con i redditi da lavoro dipendente o da lavoro autonomo, applicandovi l’aliquota corrispondente. I gestori dovrebbero poi operare in qualità di sostituti di imposta degli utenti operatori e, se risiedono all’estero, dotarsi di stabile organizzazione in Italia, comunicando i dati all’Agenzia delle Entrate sulle transazioni economiche, anche laddove l’utente operatore non percepisca reddito dalle attività svolte.
“Comprendiamo che definire con unica disposizione normativa un universo molto frammentato come quello della sharing economy sia complesso ma occorre adoperarsi affinché i cittadini vengano tutelati anche in questo settore”, conclude quindi Tascini.


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