Da qualche giorno si parla (e forse neanche tanto) di Bangladesh e delle “fabbriche della morte”: il 24 aprile scorso c’è stato un terribile incidente che ha visto il crollo dell’edificio Rana Plaza (a 11 piani) a Savar, quartiere industriale di Mirpur, a pochi chilometri dalla capitale Dhaka. Oggi, a distanza di più di due settimane, si contano ancora i corpi dei lavoratori che hanno perso la vita nella tragedia: l’ultimo numero delle autorità è di 1033.
Si tratta di un disastro enorme che pone diversi interrogativi. Alcuni di questi sono stati posti a Silvana Cappuccio, autrice di diversi saggi sulla catena dello sfruttamento dei grandi marchi tessili occidentali in Asia (l’ultimo è “Jeans da morire”, edito da Ediesse), e rappresentante della Cgil nell’Ilo.
Ecco alcuni stralci dell’intervista a Silvana Cappuccio, pubblicata sul sito www.controlacrisi.org (del giornalista Fabio Sebastiani).
Dopo la tragedia il Governo del Bangladesh ha chiuso 18 aziende che non avevano i requisiti segnando una inversione di tendenza. “Subito dopo il crollo ci sono state due aziende, una canadese e una britannica, che hanno subito parlato di indennizzo ai parenti delle vittime – precisa Cappuccio –  Contestualmente, la Walt Disney insieme ad altri marchi importanti hanno dichiarato che sono pronti ad andarsene dal Bangladesh. La seconda reazione che ha colpito il governo è stata la reazione dell’Ilo, che per l’Onu si occupa del lavoro su scala mondiale e in cui sono rappresentati sia i sindacati che le aziende. Immediatamente, il direttore ha disposto una missione di alto livello. Una assunzione di responsabilità e la sottolineatura di un cambiamento di registro”.
Cappuccio ha denunciato il fatto che “in occidente la stampa non ne parla abbastanza e non ne parla secondo l’ottica giusta. Non è un mero fatto di cronaca. C’è il coinvolgimento delle aziende occidentali, e sembra che se lo dimenticano tutti. Lì non c’è l’osservanza dei diritti minimi, a partire dalla libertà di organizzazione sindacale. Lo sfruttamento pullula. Anche laddove l’elemento normativo fosse colmato c’è il nodo dell’applicazione”.
Silvana Cappuccio ha parlato della necessità che i Governi rispettino le regole, a cominciare dalle linee guida volontarie dell’Ocse e di una comunicazione della Commissione europea della fine del 2011 che invita i Governi ad adottare i principi guida dell’Onu: proteggere, rispettare e risarcire. Non ci si può nascondere dietro le etichette ma bisogna intervenire direttamente.
E l’Italia come ha reagito? “Negli atti parlamentari si trova una interrogazione sul Rana Plaza presentata l’8 maggio dall’on. Teresa Bellanova, in cui vengono elencati cinque nomi di aziende italiane, ovvero Benetton, Itd, Pellegrini, De Blasio ed Essenza. Quest’ultima è l’unica ad aver confermato, mentre Benetton ha parlato di un rapporto occasionale con un fornitore che si serviva di subforniture presso società che producevano nel Rana Plaza. Se il Governo italiano volesse, a questo punto intanto potrebbe chiedere alle aziende italiane un chiarimento e impegnarle così con una assunzione netta di responsabilità, prevedendo un indennizzo e il reimpiego per i superstiti, e chiedendo che in tutta la filiera si produca in modo trasparente, nel rispetto dei diritti, dei contratti, delle procedure di informazioni. Per creare lavoro dignitoso e non occasioni di morte”.


Vuoi ricevere altri aggiornamenti su questi temi?
Iscriviti alla newsletter!



Dopo aver inviato il modulo, controlla la tua casella per confermare l'iscrizione
Privacy Policy

Parliamone ;-)