Disabili, Censis: bisogni ignorati. Italia fra gli ultimi in Europa
Invisibilità. Distacco dal resto del mondo. Bisogni inascoltati e ignorati. Soprattutto, un approccio che in Italia è tutto fondato sull’assistenza e non mette in primo piano il tema dell’uguaglianza, delle pari opportunità, dei diritti. L’Italia è fra gli ultimi posti in Europa per risorse destinate alla protezione sociale delle persone con disabilità. E fa perno, ancora e sempre, sull’assistenza della famiglia, che riceve il mandato di far fronte ai bisogni dei disabili. Spesso da sola. Lo dice una ricerca di Censis e Fondazione Cesare Serono.
Non a caso è intitolata “I bisogni ignorati delle persone con disabilità”. Alla presentazione della ricerca è stata richiamata la recentissima denuncia del registra Bernardo Bertolucci, costretto da qualche tempo sulla sedia a rotelle, che ha accusato il Campidoglio di insensibilità nei confronti delle esigenze dei disabili. Oltre i numeri, che indicano una spesa media italiana pari a 438 euro procapite nelle risorse destinate alle persone con disabilità, lontano dalla media europea (531 euro) e lontanissimo dal Regno Unito (754 euro), ci sono i problemi dell’inserimento lavorativo e il rischio che anche un caso di eccellenza come la scuola, che accoglie tutti i bambini disabili, finisca per arenarsi nella mancanza di risorse. Senza contare che, come in molti altri campi, il modello italiano è tutto centrato sulla famiglia, che si accolla praticamente da sola – o con l’aiuto delle “badanti” – la responsabilità dell’assistenza a malati e disabili, con la conseguente de-responsabilizzazione delle politiche pubbliche.
Pesa un approccio culturale che, a differenza di altri paesi, si fonda sull’assistenza. Spiega Ketty Vaccaro, Responsabile del settore Welfare del Censis: “Parliamo di bisogni inascoltati. In Italia c’è l’impostazione dell’assistenza, mentre negli altri paesi la disabilità rientra nella tematica dell’uguaglianza e delle pari opportunità. Abbiamo avuto leggi all’avanguardia, ma il problema è che il livello di attuazione delle leggi è imperfetto, a usare un eufemismo, e non abbiamo una legislazione recente che inquadri la disabilità in modo più trasversale. L’obiettivo dell’integrazione sociale in Italia rimane sullo sfondo”. Tutto questo in un contesto in cui c’è l’azzeramento del Fondo per la non autosufficienza e il crollo del Fondo nazionale per le politiche sociali. “Il mercato del lavoro – aggiunge la responsabile del Censis – non solo non include, ma tende a escludere nel caso della disabilità”. L’eccellenza è rappresentata dall’inserimento scolastico: in Italia tutti gli alunni con disabilità frequentano la scuola, ma, spiega Vaccaro, “si corre il rischio che la best practice rimanga un’isola felice: si riesce a realizzare un processo di integrazione e inclusione sociale che però si blocca fuori dalla scuola”. Il rischio sono i tagli alle risorse disponibili per le attività di sostegno e di integrazione degli alunni con disabilità, tanto è vero che nell’anno scolastico 2010-2011 circa il 10% delle famiglie degli alunni con disabilità ha presentato un ricorso al Tribunale civile o al Tribunale amministrativo regionale per avere un aumento delle ore di sostegno.
Italia indietro rispetto al resto d’Europa, dunque. È evidente dalla spesa: le risorse destinate dall’Italia alla protezione sociale delle persone con disabilità ammontano a 438 euro procapite annui, molto al di sotto dei 531 euro della media europea. In Francia si arriva a 547 euro per abitante l’anno, in Germania a 703, nel Regno Unito a 754 euro, e solo la Spagna si ferma a 395 euro. Ma in Italia c’è anche il problema della sproporzione fra misure erogate sotto forma di prestazioni economiche e misure erogate come beni e servizi: in questo caso, il valore procapite annuo italiano si ferma a 23 euro, ben distante dalla spesa media europea di 125 euro, lontanissima dai 251 euro della Germania e lontana anche dai 55 euro della Spagna.
Al di là delle erogazioni dell’Inps, il modello italiano – spiega la ricerca – “rimane fondamentalmente assistenzialistico e incentrato sulla delega alle famiglie, che ricevono il mandato implicito di provvedere autonomamente ai bisogni delle persone con disabilità, di fatto senza avere l’opportunità di rivolgersi a strutture e servizi che, sulla base di competenze professionali e risorse adeguate, potrebbero garantire non solo livelli di assistenza migliori, ma anche la valorizzazione della capacità e la promozione dell’autonomia delle persone con disabilità”. In Italia la disabilità è trattata e percepita, sia nei media sia nella politica, come una questione assistenziale e non come un tema che riguarda uguaglianza, inclusione, diritti civili: questo fa la differenza in negativo col resto d’Europa.
Si pensi all’inserimento lavorativo. Anche qui, l’Italia è indietro. Pur tenendo presente le diverse definizioni di disabilità nei paesi europei, emerge che in Francia si arriva al 36% di occupati fra i 45-64enni disabili, mentre in Italia il tasso di occupazione si ferma al 18,4% dei 15-44enni e al 17% dei 45-64enni. Le ricerche del Censis e della Fondazione Cesare Serono evidenziano la difficoltà di trovare lavoro e di conservarlo, anche quando la disabilità non impedisce affatto di lavorare. Una volta completato il percorso formativo, c’è difficoltà a trovare lavoro – lo denunciano spesso le persone con sindrome di Down o con autismo – e c’è difficoltà a conservarlo se si ha una malattia cronica che causa progressiva disabilità – come è il caso di chi soffre di sclerosi multipla. Accade così che meno di una persona Down su tre lavori dopo i 24 anni e il dato scende al 10% fra gli autistici con più di 20 anni.
“L’impostazione assistenziale – spiega Ketty Vaccaro – ha un costo sociale enorme perché impedisce alle persone con disabilità di dare un contributo. Tenerle nell’enclave dell’invisibilità della famiglia ha un costo che pagano tutti”. E questo in termini non solo economici, ma di pari opportunità, di diritti negati, di apporto alla vita sociale della comunità.
di Sabrina Bergamini
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